La parola compassione deriva dal latino “Cum Patior” che significa “soffro con”. Nella lingua italiana, compassione ha diversi significati: è un sentimento di partecipazione al dolore di altri, ma è anche un sentimento di disapprovazione verso comportamenti negativi, e spesso viene utilizzato impropriamente come alternativa alla pietà che prevede una componente di distacco dalla sofferenza dell’altro. La compassione è la partecipazione alla sofferenza, non un sentimento di pena che va dall’alto al basso. Si intende una comunione e partecipazione intima con un dolore che non nasce come proprio, che conduce a un’unione tra gli esseri umani. É la manifestazione di un tipo di affetto incondizionato all’interno delle relazioni umane.
Restando sul significato principale, la compassione è il sentimento di partecipazione personale che crea un legame paritetico tra le persone, chi lo prova condivide la pena degli altri e prova il desiderio di alleviare la loro sofferenza. Viene considerato dalla filosofia come una delle massime espressioni dell’amore spirituale, mentre per il buddismo la vera compassione nasce dalla consapevolezza dalla natura illusoria di un sé separato che cerca disperatamente di mantenere intatti i suoi confini, una mente che ha raggiunto tale consapevolezza è chiamata infatti “mente illuminata o mente sveglia”.
Kristin Neff (www.self-compassion.org), studiosa della compassione verso sé stessi, basa il suo modello sul buddismo Theravada e nel suo approccio identifica tre aspetti importanti nella compassione per sé stessi: l’essere presenti e aperti alla propria sofferenza; essere gentili con sé stessi; essere consapevoli del fatto che condividiamo con gli altri esseri umani l’esperienza della sofferenza e, piuttosto che sentirci soli nel nostro dolore, la compassione ci porta a comprendere e sentire un’apertura alla nostra umanità condivisa. Provare self-compassion significa sentirsi toccati dalla propria sofferenza, ma anche mostrare un atteggiamento di accettazione e di apertura che consente di non negare la propria sofferenza, né di esagerarla (Neff, 2003). Secondo Gilbert (2007) la compassione è caratterizzata invece da: sensibilità alla sofferenza, consolazione, cura degli altri, atteggiamento non giudicante, empatia, tolleranza alla sofferenza e consolazione.
La compassione è dunque un’emozione dolorosa, perché prevede il sentire la sofferenza e il dolore che l’altro sente.
Secondo Aristotele, la compassione è una emozione, che riguarda la disgrazia e la sofferenza che colpiscono le altre persone. Essa si basa su tre requisiti cognitivi:
- la credenza, o valutazione, che la sofferenza sia seria e non banale;
- la convinzione che la persona non meriti la sofferenza stessa (o persone buone, o sofferenza “sproporzionata rispetto alla colpa”)
- la consapevolezza che ciò che capita all’altro potrebbe un giorno capitare a noi stessi.
Non proveremo compassione se pensassimo di essere al di sopra della sofferenza. Il riconoscimento della propria analoga vulnerabilità, quindi, è un requisito importante e spesso indispensabile per provare la compassione. Secondo Schopenhauer la compassione è una delle strade che portano alla “liberazione dal dolore universale dell’uomo”. L’uomo, patendo assieme agli altri per il loro dolore, non solo prende coscienza del dolore ma lo sente e lo fa suo. Il dolore, unendo gli uomini, li accomuna e li conforta. Mentre per Nietzsche la compassione è come un veleno, da concentrare ed espellere attraverso la terapia del dramma. L’immedesimazione della sofferenza predicata dalla religione, porta ad un’espansione del senso dell’io del soggetto, che si dilata oltre il confine dell’individualità normale.
Ciò che accomuna tutte le varie definizioni di compassione risultano essere: la presenza di un altro, lo scambio e l’interdipendenza tra loro e il desiderio di alleviare una sofferenza.