Malattia oncologica e Mindfulness
La diagnosi di cancro porta con sé numerosi cambiamenti nella vita delle persone e delle loro famiglie. Durante questi eventi viene spesso ridefinito il modo il cui esse si approcciano al mondo, a sé stessi ed ai loro cari. Spesso si assiste a una vera e propria messa in discussione di ogni cosa che sino a poco tempo prima veniva considerata fondamentale nella vita ed i cambiamenti nella sfera sociale, fisica, funzionale ed emotiva generano, in queste persone, la ricerca di un nuovo equilibrio che prevede l’uso di strategie orientate verso la conquista e la costruzione un nuovo stato di benessere. Anche quando le terapie si dimostrano efficaci e la situazione sembra rientrare, per alcune persone non è facile ricreare un nuovo punto di equilibrio psicofisco in quanto le tematiche relative alla minaccia rispetto alla propria esistenza permangono e creano uno stato di precarietà fisica, funzionale ed emotiva che risulta essere di difficile gestione.
La diagnosi di tumore spesso trasforma in modo radicale quello che possono essere i progetti e gli obiettivi per il futuro e può portare le persone a non riconoscersi più; è facile che questo evento crei una spaccatura nella loro vita, infatti spesso si crea un “prima e un dopo la diagnosi” e un “prima e dopo della malattia”. Questo aspetto definisce il dolore e la sofferenza come un’esperienza che discrimina uno stato personale variabile nel tempo; il periodo prima della diagnosi è visto come un periodo felice e, in qualche modo, che si desidera riconquistare, mentre il futuro è un concetto che ha in sé speranza, desiderio e paura. Questa spaccatura “prima e dopo” generata da un evento traumatico come la diagnosi di cancro, può essere considerato un processo che facilita il mantenimento di uno stato profondo di sofferenza proprio per il fatto che le persone rimangono imbrigliate in desideri, aspettative, speranze, paure, rimpianti e rancori, che nella maggior parte dei casi non fanno altro che supportare un mantenimento di uno stato di sofferenza. Ciò che sfugge è il momento presente, che viene ridefinito in funzione di perdita di ciò che si aveva (la salute fisica e psicologica) o di anelito e desiderio per un futuro che rimane incerto.
L’andamento della vita è in continuo mutamento e, le persone con malattia oncologica, si trovano a dover affrontare i cambiamenti della propria esistenza con un alone di terrore, dolore e mancanza di protezione e/o assistenza. Ogni persona ha in sé delle modalità di reazione che mette in atto difronte a delle circostanze critiche, che rappresentano sicuramente il miglior modo per potersi far carico della situazione in quel dato momento. Le modalità di reazione che si mobilitano in ogni persona davanti ad un evento stressante come la diagnosi di cancro, vengono chiamate strategie di coping, che sono appunto delle modalità di reazione che comprendono risposte cognitive, emotive e comportamentali (Parle M., Maguire P., 1995). Lazarus e Folkman (1984) definiscono gli stili o strategie di coping come “gli sforzi cognitivi e comportamentali per gestire le richieste specifiche che sono considerate come eccedenti le risorse di una persona” e considerano la valutazione cognitiva come il concetto centrale del loro modello.
Tanto è stato scritto per descrivere i mutamenti e gli effetti che la diagnosi di malattia tumorale ha sulla persona, ed è facile comprendere la variabilità di esiti e/o sintomi che si possono presentare. Per ogni essere umano, la malattia tumorale è un’esperienza estremamente soggettiva e, le emozioni, le sensazioni ed i pensieri che si possono presentare sono diverse da individuo a individuo. I valori e le credenze con cui le persone sono cresciute influenzano sicuramente il modo con cui la malattia viene affrontata. Alcune persone pensano di essere forti e combattive e cercano di proteggere i loro cari dalle preoccupazioni che la malattia può generare, altre invece ricercano il sostegno di persone a loro vicine, dei medici o nella fede. Emozioni come la paura, la rabbia, il senso di colpa possono creare dei sintomi ansiosi e depressivi che, facilmente possono associarsi a problemi relativi all’adattamento della persona al nuovo evento di vita.
La sofferenza acquista nuovi volti e ciò che fino a ieri era considerato un buon amico, ora non lo è più. La relazione con il corpo infatti può divenire problematica, si possono manifestare pensieri ed emozioni contrastanti a volte legati all’instaurarsi di una malattia silenziosa, priva di un iniziale dolore o segno di allarme, che però racchiude una forte minaccia. Il corpo quindi viene a volte vissuto come traditore, estraneo e minaccioso, ma allo stesso tempo sofferente e dolente. Accade spesso nella pratica clinica sentir parlare del percorso di cura della malattia in termini di lotta, guerra, battaglia, dove si ricercano vinti e vincitori, ma di fatto l’ambiguità sta proprio nel definire e osservare come la lotta avvenga dentro e contro di sé, con e attraverso il proprio corpo. La paura, la tristezza e la rabbia permeano i pensieri, i comportamenti e le relazioni interpersonali generando un globale modo di vivere orientato verso la ricerca di qualcosa di stabile e definito, che però, a causa della natura della patologia oncologica, non si riesce a trovare. Ne consegue quindi un atteggiamento verso l’esperienza caratterizzato da instabilità e precarietà che si può orientare verso due poli: da un lato si può tendere verso una costante ricerca di certezze e rassicurazioni e dall’altro verso una modalità più fatalista e passiva rispetto a ciò che sarà il proprio percorso.
L’umore si può orientare in senso depressivo, con tematiche associate a una visione negativa che si presenta lungo il percorso individuale. Le stesse terapie possono generare un abbassamento del tono dell’umore, creando così dei difficili meccanismi di mantenimento. È facile infatti che tutti gli eventi che accadano possano essere pilotati in senso depressivo o ansioso, proprio come modo che la mente ha di accogliere ed integrare la malattia nella propria vita. La relazione che si ha con il tempo subisce un forte cambiamento, tutto diviene instabile e precario. La propria idea di finitezza genera ansie, paure e ricerche di senso sulla propria esistenza e, in modo indiretto, rimette in discussione ciò che sino a quel momento era importante e dirige l’attenzione verso la strada che ora si vuole seguire. Il futuro diviene una minaccia, instabile e incontrollabile, pertanto si osservano delle difficoltà nel proiettarsi su di esso. Il corpo porta con sé quanto sino ad ora descritto con manifestazioni ansiose, insonnia, agitazione, tensione, irrequietezza, umore depresso, stanchezza e sintomi fisici di varia natura che si ripercuotono nelle relazioni familiari con possibile ritiro sociale. A livello di pensiero spesso possono sorgere dei pensieri intrusivi e dolorosi circa la malattia, la prognosi e la morte che possono divenire invalidanti e rappresentare un ulteriore strumento di mantenimento della propria sofferenza.
Dal punto di vista diagnostico il primo e più noto studio multicentrico che ha esaminato, attraverso l’uso del DSM e dell’ICD 10, la prevalenza di disturbi psichici in oncologia è rappresentato dal Psychosocial Collaborative Oncology Group (PSYCOG), condotto negli USA in quattro centri con il coinvolgimento di 215 pazienti con diagnosi recente di patologia neoplastica seguiti ambulatorialmente e valutati attraverso intervista secondo il DSM-III. In tale ricerca è stato dimostrato che il 47% dei pazienti presentava sintomi con caratteristiche e intensità soddisfacenti i criteri del DSM-III, in particolare disturbi d’adattamento con aspetti depressivi puri o misti ansioso-depressivi (25%), depressione maggiore (6%) e disturbi d’ansia (4%) (Derogatis et al., 1983). I disturbi dell’adattamento rappresentano certamente i quadri più frequentemente riportati in ogni fase della malattia, descrivendo l’insieme delle reazioni emozionali secondarie ai molteplici stressors collegati alle patologie neoplastiche e coinvolgendo il 20-25% dei pazienti. In generale, rispetto alle manifestazioni di sofferenza psicologica dei pazienti con malattia oncologica si osserva una compromissione della qualità di vita su più livelli. Lo stato costante di allerta che genera la
diagnosi di tumore, porta ad un mantenimento dell’attivazione del sistema neurobiologico connesso allo stress per lunghi periodi di tempo. In risposta alla minaccia, l’amigdala segnala all’ipotalamo di inviare un messaggio all’ipofisi, che a sua volta stimola le ghiandole surrenali che secernono due potenti ormoni, l’adrenalina e la noradrenalina. Questi ormoni, unitamente al cortisolo prodotto dalle ghiandole surrenali (Asse Ipotalamo ipofisi surrene), stimolano i differenti sistemi dell’organismo producendo così la reazione di attacco o fuga. La tensione arteriosa sale, il ritmo cardiaco aumenta e il sangue affluisce ai muscoli degli arti, pronti all’azione. La digestione è momentaneamente sospesa ed i recettori del dolore sono repressi. Il sistema di risposta all’emergenza dunque continua ad attivare la produzione di ormoni sino a quando il pericolo è passato.
Nelle persone con malattia oncologica il sistema sopra descritto pare perdurare più a lungo, in quanto i vari trattamenti medici come l’intervento chirurgico, la chemioterapia, la radioterapia e i successivi controlli periodici, fanno si che lo stato di allerta e la percezione di minaccia siano sempre costanti (Carlson LE, Bultz BD.,2003).
Applicazione della mindfulness in ambito oncologico
Nel corso degli ultimi venti anni gli approcci basati sulla mindfulness si sono guadagnati, nel campo della clinica, e del benessere psico-fisico, uno spazio di sempre maggior rilievo. L’uso di pratiche di Mindfulness è stato infatti usato nell’ambito di svariate situazioni cliniche, sia rispetto a disagi fisici che psicologici, sempre se questa possa essere considerata una suddivisione appropriata. Le caratteristiche della malattia oncologica e la sua cronicità, rendono la diagnosi, il percorso di cura ed anche il percorso successivo un itinerario ricco di fattori stressanti e di difficile gestione.
Ma su quali aspetti può far leva la mindfulness al fine di essere utile in abito oncologico?
Durante la meditazione mindfulness si invitano le persone a osservare ciò che accade senza giudizio, per permettere alla coscienza di avere accesso alla consapevolezza senza apportare alcun tipo di valutazione su di essa (gradevole, giusto, sbagliato, banale ecc). Ad esempio se l’attenzione è posta sul respiro, l’obiettivo è quello di non definire il respiro o l’atto del respirare come buono o meno, ma stare con ciò che c’è in quel dato momento. Questo aspetto rimanda infatti alla possibilità e alla capacità della persona di osservare l’esperienza senza lasciarsi travolgere dai possibili significati, previsioni per il futuro e/o emozioni ricorrenti. La persona affetta da tumore infatti può avere dei pensieri ricorrenti, talvolta intrusivi, tipo: Perchè a me? Cosa ho fatto di male? È colpa delle mie azioni? È una punizione? E se il male ritorna? Tutti prima o poi muoiono di questo male! Questi pensieri, talvolta possono trasformarsi in ruminazioni invalidanti che vanno a turbare l’equilibrio della persona; è stato osservato che, grazie alla mindfulness, questo meccanismo può essere interrotto (Labelle LE, Campbell TS, Faris P, Carlson LE., 2015) e Shapiro, Oman, Thoresen e Flinders (2008) rilevano che le pratiche di mindfulness riescono a fare in modo che la persona possa gestire pensieri e sensazioni dolorose senza farsi sopraffare da esse. L’approccio ai pensieri di un lavoro basato sulla mindfulness non ha lo scopo di modificare i pensieri e le convinzioni come accade nella ristrutturazione cognitiva, ma agisce sulla relazione che si ha con essi. Con la pratica di mindfulness si persegue il “decentramento” chiamato anche da Hayes (1999) “defusione” o “deidentificazione dai propri pensieri” (“io non sono la mia malattia”). La comprensione degli eventi mentali e corporei come eventi e non come fatti che rimandano a qualcosa di reale su di sé e sul futuro e la consapevolezza del flusso automatico dei pensieri e delle sensazioni che scorrono nella coscienza, permettono infatti una maggiore accettazione del proprio stato fisico ed emotivo
Il non attaccamento che viene richiesto nelle pratiche di mindfulness, nasce dalla comprensione dell’impermanenza e, tramite questa, i pazienti sono in grado di allentare il bisogno di controllo, di conoscenza dei risultati delle indagini strumentali e delle analisi o della prognosi futura (Carlson L. internet).
Un altro aspetto importante è un cambiamento di approccio nei confronti del proprio stato di salute fisica. Si richiede infatti alle persone di lasciar andare il “perché” di un dato sentire o il “come mai” un avvenimento accade al fine di focalizzarsi su “cosa” accade respiro dopo respiro. Ciò di fatto risulta importante proprio perché, la tendenza dell’uomo è darsi una spiegazione di ciò che succede intorno e dentro di esso, ma come è facile intuire, le risposte al perché ciò avviene non possono far altro che alimentare e mantenere uno stato di sofferenza che va a costituire una seconda freccia1 ancor più dolorosa. Lo spostamento sul cosa permette una visione più attenta e equanime dell’esperienza.
Attraverso la pratica del body scan l’esperienza consapevole delle varie parti del proprio corpo, può aiutare le persone che hanno subito interventi invasivi e particolarmente mutilanti a imparare ad accettare anche con gentilezza le sensazioni associate a quell’area del corpo sofferente.
Le pratiche mindfulness inoltre aiutano a coltivare alcune qualità mentali tra cui pazienza, accettazione, curiosità, chiarezza mentale, serenità, decentramento, compassione e gioia, utili a liberare la mente stessa dalla morsa dell’avversione (che si trasforma in rabbia o in depressione), della paura, dell’auto-referenza, dell’attaccamento ad una identità cristallizzata (che porta all’impossibilità di rispondere efficacemente alle richieste di cambiamento psicologico, fisico e sociale che la malattia impone) (Pescatori, 2010). Per chi convive con una malattia oncologica e con il suo carico di dolore, ansia e paura, avere una mente mindful significa per esempio poter notare le sensazioni, le emozioni, i pensieri via via che sorgono senza correre in avanti saltando a conclusioni a priori. Poter fare attenzione alla qualità della sensazione dolorosa, a come pulsa, alla sua temperatura, a come si modifica, osservandola attentamente e in profondità attimo per attimo nel suo manifestarsi cosicché forse è possibile sperimentare che non è un qualcosa di enorme, fisso e spaventoso, ma un processo in continua trasformazione. Significa notare la rabbia, la paura che sorge e fare esperienza di queste, di come esse si manifestano nella mente e nel corpo, non come la “mia rabbia”, “la mia paura” che porterebbe automaticamente a giudicarsi, a negarla, reprimerla o agirla contro sé o gli altri, ma come fenomeni che sorgono, occupano uno spazio temporale conoscibile attraverso le impressioni sensoriali che svaniscono (Pescatori, 2010).
Frank Ostaseski è uno dei principali esponenti nel campo dell’assistenza contemplativa al fine vita. Ha fondato il Metta Institute ed è stato co-fondatore dello Zen Hospice Project, il primo hospice buddhista degli Stati Uniti. Nella sua carriera si è preso cura di centinaia di persone affette da cancro in fase terminale e dei loro familiari. Egli ritiene che l’esperienza del lutto, se orientata verso la consapevolezza, può portarci alla comprensione della verità assoluta dell’impermanenza e questo può orientarci a vivere più pienamente, accettando più rischi proprio per la certezza della brevità della vita (Ostaseski, 2011). Sarebbe infatti la precarietà della vita a generare nell’uomo emozioni di dolore, angoscia, disperazione e solitudine; l’aggrapparci alla vita è dunque sofferenza. Nel suo lavoro pone grande importanza alla reciprocità tra le persone e alla necessità di un profondo ascolto nella relazione tra colui che si prende cura e la persona malata (“mente che ascolta”). Il beneficio che viene tratto da questo tipo di assistenza al malato terminale è infatti considerato reciprocamente, in quanto i professionisti e i volontari lavorano su se stessi per coltivare una disponibilità compassionevole verso gli altri e verso se stessi, essendo strumenti di cura amorevole.
Nel suo libro Ostaseski (2011) dice che familiarizzare con la nostra sofferenza personale permette di aprirsi alle nostre ferite, alla nostra gioia, alla nostra speranza; spesso pensiamo alla perdita come ad un evento particolare ma se guardiamo più a fondo ci rendiamo conto di quanto questa ci accompagni nella nostra vita, proprio perché il dolore lo sperimentiamo inevitabilmente ogni giorno.
Cristina Feldman (2005) parla di sofferenza nata dalla perdita come una via attraverso l’universale e immutabile legge del cambiamento. Nella malattia oncologica i cambiamenti sono dolorosi, spiacevoli, destabilizzanti e si crea nei loro confronti una sorta di avversione che porta noi esseri umani verso il rifiuto di accettazione e al conformarci alla semplice verità dell’impermanenza e di tutte le sue implicazioni. Il cambiamento porta perdita e la perdita porta il lutto, spesso travestito da rabbia, paura, ansia e risentimento, che mascherano la vera origine del nostro dolore, infatti apparentemente soffriamo per la malattia ma di fatto soffriamo per il rifiuto di accettare la vita
così com’è (Feldman, 2005 pag. 31). Grazie all’utilizzo delle pratiche di mindfulness si cerca di poter lasciar andare la caparbietà che ci lega ad un’illusione di un’immobilità di noi e del mondo, per fare spazio al non-attaccamento inteso come saggezza che ci porta a lasciar andare tutto ciò a cui ci aggrappiamo e con cui ci identifichiamo con tanta determinazione (persona sana, felice, amata, libera). Nella malattia oncologica la paura del dolore e la minaccia sulla perdita della propria vita, generano una paura molto importante nei malati, avvero quella di sentirsi impotenti. La consapevolezza nasce dalla nostra disponibilità a porre attenzione e volgere il nostro sguardo anche su questa ferita, che ci vede disarmati e afflitti in uno scorrere dell’esperienza che è ciò che è, nell’ essere inermi e sofferenti. Quando si ha la possibilità di smettere di scappare, di respingere e di resistere la malattia, è possibile che si possa lasciare spazio all’apertura e alla comprensione, smettendo di accumulare la sofferenza sul dolore (Feldman, 2005). La malattia nel corpo, l’avversario da sconfiggere e da cui ci si sente minacciati, potrà essere visto con occhi diversi, con gentilezza di cuore, benevolenza e compassione.
Federica Erca
Bibliografia
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Ostasesky, F. (2011). Saper accompagnare: Aiutare gli altri e se stessi ad affrontare la morte. Milano, Oscar Mondadori.
Pescatori B., (2010) La Medicina Integrata nel paziente oncologico” Spoleto il15/16 ottobre 2010. http://www.centromindfulness.net/spazio-editorialemindfulness/articoli-mindfulness/item/162-il-protocollo-mbsr-mindfulnessbased-stress-reduction-come-terapia-complementare-nella-curadelcancro.html.
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